Soul (P. Docter, Usa 2020)
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The Founder (J.L. Hancock, Usa 2016)
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"Il McDonald's sarà la nuova chiesa americana. E poi non è aperto solo di domenica"
Trama:
La vera storia della nascita di Mc Donald’s.
Siamo negli anni ’50, Ray Kroc è un fallito venditore di frullatori che si imbatte nei fratelli Mac e Dick McDonald, che hanno aperto una attività molto redditizia di vendita di hamburger nel Sud della California. Kroc ne comprende subito il potenziale che sta tutto nell’ingegnoso studio degli spazi e nella velocità di preparazione e consegna, unito alla qualità del prodotto. Si dà subito da fare per convincere i fratelli ad avviare un franchising, ma i suoi piani vanno ben oltre…
Un attore come Michael Keaton, la vera anima del film, era di sicuro il migliore per interpretare l’ambiguo avido e senza etica “fondatore”. Grazie al suo tipico sguardo d’aquila e allo stesso tempo allo slancio entusiasta di gesti e recitazione che hanno tenuto il personaggio in costante bilico tra l'essere amato e odiato, nel bene e nel male.
John Lee Hancock è un risaputo sfornatore di biopic e anche qui fa il suo lavoro, seppur senza slanci. La sceneggiatura è secondo me appena sufficiente, riesce a evitare moralismi in cui era facile cadere, ma resta molto piatta e coinvolge poco nel dramma dei personaggi che si sentono per tutto il film distanti, distaccati. Non c’è un approfondimento psicologico, non ci sono sfumature, non si sente realmente il dramma. Seppur si segua con curiosità la storia, il film non riesce a trascinare e nella seconda parte da un’accelerata che raffredda ancora di più il fragile legame. Forse per paura di cadere nella trappola dell’idealizzazione di un sogno americano che qui si macchia di sporco, di parodiare un personaggio estremo nella sua ostinazione, amoralità e avidità cronica, il regista si tiene troppo, ma davvero troppo, a distanza.
Se si esclude la perfetta scelta dell’attore, il film non ha quindi molto altro da offrire, se non riportare alla luce una storia che forse si conosceva poco fino ad ora.
Un giorno di pioggia a New York (W. Allen, Usa 2019)
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"Mi serve il monossido di carbonio per vivere"
Trama:
Una coppia di studenti lascia il college per passare un weekend piovoso a Manhattan, ma il loro legame verrà sin da subito messo a dura prova e la vacanza romantica si trasformerà in tutt'altro.
Lo sappiamo un po’ tutti che Woody Allen “ultimamente” non se la sta cavando un granché bene col cinema. E dico ultimamente solo perché è Mr. Woody Allen, perché qua si parla di decenni ormai di inaridimento, di personaggi, temi, storie, situazioni viste e riviste, rimasticate e sputate fuori con nuovi volti, senza che il nostro riesca a distanziarsene, incastrato in un cerchio di narcisismo da cui evidentemente non riesce(non vuole) a uscire. Insomma, riproponendo ogni anno film di cui a volte, detta crudelmente, si potrebbe fare a meno. Però è Woody Allen, e finisce sempre che ogni nuova uscita si guardi, per curiosità, con una punta di speranza persino…
Quindi, dopo questa premessa, ho recuperato anche questo.
Un giorno di pioggia a New York parte da una vacanza, un po’ come tutti i precedenti film del buon vecchio Woody Allen (Barcellona, Venezia, Londra… Parigi). Stavolta siamo a New York, una New York luccicante ma molto meno cartolinesca delle precedenti ambientazioni versione vacanza, forse (fortunatamente) perché questa è la sua città ed è stato in grado di allontanarsi vagamente dagli stereotipi per concentrarsi un po’ di più sui suoi personaggi, in questo caso più “vivi” del solito.
Il film segue i percorsi che corrono in parallelo di Gatsby, ricco giovane dal cuore vintage che viene dalla grande metropoli, intelligente e con un forte desiderio di libertà, e Asleigh ragazza invece di campagna pronta a lasciarsi ammaliare e trascinare da figure equivoche alla ricerca dello scoop, è infatti una giornalista in erba pronta a tutto per il successo, e che di quello che Gatsby le vuole mostrare, l'anima antica della sua bella città natale, non ha nessun interesse.
I due, come è prevedibile, si separano non appena arrivati nella grande mela e faticano a ritrovarsi, in tutti i sensi possibili; sono troppo diversi tra loro e in questa vacanza che in tutte le maniere immaginavano che andasse, tranne quella, ritroveranno se stessi e la giusta strada da percorrere.
Ciò che ho trovato voluto - anche se forse non sembra - ma riuscito, è lo sguardo di Woody Allen su questa gioventù completamente fuori dal tempo; tra citazioni, interessi vari e persino il nome del protagonista, tutto sembra richiamare un mondo che non esiste se non nell’anima, nel cuore del regista, nella sua memoria persino. E anche la città stessa segue questa linea, assume questa forma eterea, lontana dal moderno, dalla contemporaneità, si nota negli spazi scelti per fare da sfondo ai dialoghi incalzanti (anche se a volte davvero troppo fuori sincrono con l'oggi per suonare reali) dei protagonisti: sale di musei, Central Park, piani bar, locali retrò… luoghi senza tempo, mitologici persino.
Gli attori sono azzeccati e bravissimi, se c’è una cosa in cui il buon Woody non sbaglia mai è proprio la scelta dei suoi “alter ego”. Timothée Chalamet sicuramente e ancora di più Elle Fanning, passando anche per una convincente Selena Gomez.
In conclusione, Un giorno di pioggia a New York, seppure soffra delle critiche sopra citate, risulta gradevole e a tratti fresco, nonostante tutto.
Tenet (C. Nolan, Usa 2020)
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"Viaggio nel tempo? No. Inversione."
Nolan ormai lo conosciamo, ama stupire, desidera riscrivere l’esperienza dello spettatore in sala e di tentativi in tal senso ne ha fatti tanti. A partire da capolavori come l'indimenticabile Memento, passando per l’ottimo Inception, persino con l'ultimo Dunkirk, in una maniera diversa. E tra una pausa e l’altra torna all’attacco, sempre con l’intento di immergere in una narrazione ancora meno sequenziale... si avvolge e riavvolge, si replica, corre su binari paralleli, raddoppia, e torna a scontrarsi con la realtà. Un filo meravigliosamente intricato che non è obbligatorio dipanare, non tutto, non per forza.
Parola chiave: innovazione, anche a rischio di incomprensione (e di parolacce da parte dello spettatore).
E così arriva Tenet, un palindromo di nome e di fatto, un film che da qualsiasi parte lo guardi e lo giri, resta sempre uguale a se stesso. Concettualmente, pur con tutti i suoi limiti, e visivamente fantastico. Si resta incantati, del tutto affascinati, di fronte alle immagini che scorrono, al contrario, replicandosi, accartocciandosi su se stesse e ancora stiracchiandosi, tornando indietro e poi avanti, in una linearità temporale e spaziale che non esiste più, che rompe il nesso causa-effetto.
Inutile con film di questo tipo intestardirsi sulle trame, non è tutto qui il cinema. La trama c’è, l'essenziale e volutamente semplice: "salviamo il mondo da una bomba" è un espediente per far muovere i suoi personaggi attraverso il tempo e lo spazio. Nolan ci invita ad abbandonarsi al flusso, senza stare troppo a verificare scientificamente fatti che è difficile dipanare nel dettaglio, tra azzardi di fisica quantistica più o meno veritieri, e passaggi forse inesatti. Ma che importa, alla fine? È il racconto al centro, che abbia una narrazione lineare, doppia, tripla, parallela, ripetuta o invertita, sta tutto lì, nella meraviglia di saper raccontare, nell'assistere al cinema che si ricrea, che nasce, rinasce, e assume forme inaspettate. Sta tutto nell’emozione, nell’idea folle di un regista che apprezzo perché osa, a volte facendosi forse lo sgambetto da solo. E allora il "non tentare di comprenderlo. Sentilo" che dice un personaggio durante la storia, sembra quasi un suo consiglio allo spettatore.
Tenet di difetti ne ha, ma resta trascinante, ha un ritmo altissimo, a cardiopalma (stile 007, che a tratti ricorda molto, anche per la quantità di sparatorie), sottolineato in maniera perfetta dalle musiche di Göransson che accompagnano il protagonista, John David Whashington (bravissimo figlio di Denzel Whashington), l'ormai mostro sacro Kenneth Branagh, in un ruolo insolito, e gli altrettanto convincenti Robert Pattinson (ormai lontano dal vampiro di Twilight) e Elizabeth Debicki (prossima Lady D nella nuova stagione dell'acclamata The Crown. L'avete vista, vero? Imperdibile).
Visivamente è un’emozione costante, è tutto perennemente in movimento, una corsa infinita, un continuo salto, a tratti ingiustificato. La sceneggiatura a volte fatica a mantenere questo incedere di sicuro voluto, e molto spesso le scene sono slegate, come se fossero delle isole, la foto di una nazione che fatica a stare insieme, ma è la natura del film stesso che non aiuta all’omogeneità. Gli strati del film sono tanti, tantissimi, la trama si piega su se stessa di continuo.
Alcuni passaggi, inseriti con l'aiuto del montaggio in punti imprevisti, creano un po’ di confusione e a volte si ricollegano a fatica con il loro punto ideale, anche se con attenzione è possibile a ritroso ricostruire i salti, raccogliere i segnali, e piazzarli là dove “dovrebbero essere” (ma alla fine è là che dovrebbero essere?). Gli infodump, tanti, troppi e non sempre necessari, a volte appesantiscono una narrazione che è già abbastanza “opprimente” per uno spettatore, bombardato letteralmente dalle immagini. Si è del tutto travolti, storditi, e forse si esce anche stravolti dalla sala.
Ma se il cinema è un'esperienza, questa sicuramente lo è.
Il Buco (G. Gaztelu-Urrutia, Spagna 2019)
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"Se tutti mangiassero solo quello di cui hanno bisogno, il cibo arriverebbe anche a quelli più in basso"
Trama:
In una prigione sviluppata in verticale e composta da un numero di piani indefinito, si trova volontariamente rinchiuso un uomo, Goreng. La sua idea è quella di vivere l’esperienza, questa sorta di esperimento sociale, senza scossoni, ma sin da subito si rende conto di essere caduto in un incubo, in uno scontro che vede coinvolti tutti gli uomini distribuiti sui piani, tra i quali ogni giorno scende giù una piattaforma ricca di tutti i cibi immaginabili. Ma il banchetto non è per tutti, più si è in basso e meno sarà possibile mangiare, accaparrarsi gli avanzi che calano dall’alto e che sono sempre meno man mano che la piattaforma raggiunge i piani più bassi. A intervalli regolari però, i prigionieri si risvegliano su un altro piano, che può essere più in alto, o più giù…
La domanda da cui parte Il Buco (The Platform, il titolo internazionale), piccola perla scovata su Netflix e da loro prodotta, è: se si vivesse in una società che funzionasse grazie alla solidarietà spontanea, cosa accadrebbe? Ma soprattutto, può realizzarsi un’utopia del genere? Questo concetto è alla base del film, e subito l’utopia si trasforma in distopia.
La sceneggiatura mette in mostra la crudeltà umana, l'egoismo, l'incapacità dell’essere umano di pensare al prossimo, cercando di dare una spinta thriller alla trama che con l’espediente del cambio di piano, dei risvolti psicologici dei protagonisti e loro reazioni, con le implicazioni dell’ambiente, le sue pressioni, tiene incollati alla storia.
Goreng non vuole cedere all’istinto naturale, né perdere quello morale. Ha portato con sé il Don Chisciotte e come lui vorrebbe proseguire la sua battaglia ignorando ciò che lo circonda, ma è davvero difficile nel buco. Chi è lì da più tempo è ormai privo di qualsiasi empatia, ed ha il solo pensiero di sopravvivere, di ingozzarsi a discapito dei più deboli, perché chissà in che piano si capiterà la prossima volta… non c’è spazio per la sensibilità di un uomo di cultura, c’è solo fame, lotta, disperazione e morte.
La perdita assoluta di lucidità, la trasformazione degli uomini in bestie prive della capacità di organizzarsi in un sistema funzionante che non sia piramidale, è la chiave del film, molto riuscito nel tenere in equilibrio animale e uomo, per mostrarne tutti gli aspetti, con Goreng che cerca di restare aggrappato alla sua umanità che si infrange costantemente in un ciclo senza fine, assoluto motore del film.
Il buco è davvero asfissiante, con i suoi spazi chiusi, sottolineati da una fotografia tetra, e il solo suono della piattaforma che scende, degli uomini-bestie che ci saltano, rovesciando portate, rompendo piatti, mentre sotto, nell’ansia, gli altri aspettano affamati, sperando di non trovare solo stoviglie vuote.
Collaborazione, sarebbe la risposta. Se ognuno mangiasse solo la propria parte ci sarebbe da sfamarsi per tutti, ma come convincere chi ha subito i piani bassi e ora si trova agli alti? E ha sofferto giorni e giorni di digiuno? Il meccanismo è talmente malato e forte che rovesciare il sistema per instaurarne uno basato sull’auto-gestione e regolazione, sembra impossibile, vuole dirci il regista, pronto a calcare la mano sugli aspetti più brutali.
Il Buco è in conclusione una critica spietata, una denuncia sulle disuguaglianze sociali, un mix forte di immagini e temi che funziona molto bene, anche quando si allontana dall’impronta sociopolitica per approdare nella fantascienza a tinte horror.
Get Out (J. Peele, Usa 2017)
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Trama:
Chris raggiunge la ragazza Rose nella tenuta di campagna per conoscere la sua famiglia. Ma le cose si fanno sin da subito strane e Chris pensa sia colpa del fatto che è un giovane afro-americano. Ciò che scopre però va ben oltre la sua immaginazione…
Di Jordan Peele ho recensito prima la sua ultima fatica, Noi, film complesso che prosegue il discorso del più “embrionale” e compatto Get Out, horror atipico e suo esordio assoluto alla scrittura e alla regia.
Un esordio come non se ne vedeva da un po’, sicuramente. Osannato dalla critica, grande successo al botteghino negli Stati Uniti e nel mondo, candidature a tutti i maggiori premi, vincitore di un Oscar alla migliore sceneggiatura originale, e il tutto per un horror, che si sa, non è mai stato un genere di spicco, considerato o particolarmente amato dalla critica, anche se in questo caso è anche forse soprattutto un thriller.
Jordan Peele decide di partire subito con un tema scottante ma sempre verde, il razzismo presente nella società americana e mai tramontato. Lo fa incastrando Chris in una situazione iniziale scomoda che gli genera sempre maggiore ansia, accavallando sospetti e supposizioni, e ci si ritrova a chiedersi insieme al protagonista se non sia solo tutto frutto di una paranoia razziale. Scherzi della mente, incubi ad occhi aperti, presentimenti sbagliati causati dalla tensione della situazione.
Il film riesce nel suo intento di denunciare l’ipocrisia, senza lanciarsi in una critica sociale palese o sfacciata, senza cadere nel banale o nel moralistico, grazie a una sceneggiatura ben congegnata e sottile, dal tono volutamente satirico e allegorico, che permette alla storia di essere ancora più incisiva, di graffiare. Merito anche di una recitazione davvero ottima, in particolare del suo protagonista, Daniel Kaluuya, che si ritrova in mano un personaggio molto complesso.
Tutti i personaggi rappresentati sono subdoli, ma non proprio negativi come ci si aspetterebbe (e sta qui anche il grande lavoro di sceneggiatura), volutamente macchiettistici, pronti a ogni scena a gettare nel dubbio l’ignaro Chris, in una spirale di suspance che tiene lo spettatore sull'attenti, incutendo un timore genuino con maestria, senza utilizzare espedienti banali. Il tutto in attesa della scoperta, del boom della seconda parte atteso sin da subito e purtroppo prevedibile, che darà il via alla corsa verso un finale forse scontato ma catartico, persino speranzoso nella sua follia.
Ma Get Out si lascia guardare con interesse, se fosse durato qualcosa di meno sarebbe stato forse maggiormente incisivo, il carattere però non gli manca e sicuramente riesce a imporsi e a farsi ricordare.
Doctor Sleep (M. Flanagan, Usa 2018)
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“Quando ero bambino c'era un posto... un posto oscuro. Poi l'hanno chiuso lasciandolo marcire, ma le cose che vivevano lì... quelle ritornano.”
Danny Torrance non è più un bambino. Adesso è un uomo che deve fare i conti con la sua luccicanza e imparare a conviverci. Ma non è facile e nel tentativo è diventato un alcolizzato senza futuro che ha toccato il fondo. Grazie all'aiuto di un amico, riuscirà però a rialzarsi, trovando una parvenza di serenità in una piccola cittadina, almeno fino a quando qualcuno non lo ricontatterà, scatenando tutti i suoi peggiori incubi.
Era davvero un azzardo portare sul grande schermo Doctor Sleep, come lo era scrivere un seguito, d’altronde.
Il film è costruito su due pilastri, da una parte abbiamo la luccicanza ora minacciata da un gruppo di predatori che danno la caccia a chi la possiede, imbattendosi nella piccola Abra; dall’altra, invece, il legame mai interrotto tra Dan e il suo passato, fatto di fantasmi e di un padre sempre presente nei suoi incubi. Talmente presente che porterà Dan a ripetere quello stesso percorso distruttivo che a lui era stato fatale.
Si è subito proiettati nel contesto di Shining, perché troviamo Dan dal primo istante nella stessa situazione di Jack Torrance.
La citazione del capolavoro di Kubrick, i richiami anche solo accennati, sono costanti e sono utili, oltre che per fare felici i fan, per mantenere in piedi queste due vite che corrono parallele, quelle di padre e figlio, per poi scontrarsi e ritrovare una redenzione.
Tutto il film è costruito per arrivare a quello scontro finale all’Overlook Hotel, la via per superare il passato e mettere a posto tutto ciò che è rimasto sospeso. La piccola Abra e i “cattivi” allora suonano come un pretesto per far scendere in campo l’eroe e metterlo in pericolo abbastanza da portarlo sulla strada sperata.
Lo scontro tra bene e male risulta debole e la protagonista dei “vampiri", la donna col cappello, è sicuramente affascinante ma non abbastanza incisiva o carismatica.
Sicuramente nella sua ambizione, Mike Flanagan è riuscito a richiamare le atmosfere del capolavoro di Kubrick, aiutato da alcuni stacchi musicali impossibili da dimenticare, ma anche a distanziarsene per abbracciare più la visione del libro di Stephen King. Non è un segreto che lo Shining di Kubrick si allontani ampiamente dal libro e che sia stata una delle maggiori critiche al film.
Nel complesso, Doctor Sleep è riuscito e ha il grande pregio di essere di uno scorrevole impressionante, tenendo sul filo lo spettatore con il suo universo di citazioni, ma soprattutto in attesa dello scontro finale, che ripaga sicuramente la visione. Tre ore piene volano via in un soffio. Nel bene e nel male.
Noi (J. Peele, Usa 2019)
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“Siamo americani”
Trama:
1986 - Una bambina, Adelaide, scappa al controllo dei genitori durante una serata al Luna Park, e sulla spiaggia entra nella casa degli specchi dove si imbatte in un’altra sé…
Ai giorni nostri, Adelaide, una strepitosa Lupita Nyong'o, ormai cresciuta, torna nella casa dell’infanzia insieme a suo marito e ai suoi due figli, e subito le torna in mente il suo trauma infantile. Se non bastasse, quando cala l’oscurità, la famiglia si ritrova sul vialetto di casa quattro figure che sembrano essere i loro sosia…
Jordan Peele sa come sorprendere. Dopo l’acclamatissimo Get Out, che ha vinto l’Oscar alla migliore sceneggiatura originale, torna con questo Noi, horror politico potente ma sicuramente non perfetto.
Siamo nel 1986, uno spot pubblicizza l’iniziativa di beneficienza “Hands Across America” e la piccola Adelaide osserva colpita questa catena umana di persone che si tengono per mano per combattere la miseria.
Da questa prima, potente scena che mostra una America affascinante e solidale, con un esperimento sociale che andrà incontro ad un annunciato fallimento, Adelaide si ritrova al Luna Park, a entrare nella casa degli specchi dove incontrerà il suo doppio.
Da quel rimosso, da quella voragine aperta durante l’infanzia, Jordan Peele scatena il peggior nemico di tutti: noi stessi.
Sicuramente più ambizioso, Noi si mostra stratificato, pieno di riferimenti e allegorie non tutte facili da cogliere, condotte sapientemente e con grande personalità dal regista.
I temi sono tantissimi, ed è forse questo il difetto principale: il sovraffollamento. Dalla vita dei neri negli Stati Uniti, già affrontato in modo completo in Get Out, al divario tra bianchi e neri, tra povertà e ricchezza, ben rappresentato nella splendida e intensa scena del balletto delle due Adelaide. L’Adelaide che balla sul palco e quella in catene, costretta a danzare in prigionia, in spazi stretti, intrappolata ma pronta a volare.
Questo è anche, e non solo, un film sulla lotta di classe, sulla rivoluzione proletaria mascherata simbolicamente. È la storia di una ribellione contro qualsiasi egoismo. È tutto un groviglio di rimandi e simboli, un gioco di specchi, di opposizioni e immagini suggestive che colpiscono nel segno, passando dalla commedia intelligente ai migliori horror (in questo caso, come detto, politico), con una colonna sonora pungente, allo stesso modo dei dialoghi.
In questa corsa della protagonista, e di riflesso di tutta la famiglia, a sconfiggere ed affrontare gli incubi del proprio passato, più volte si rovesciano i ruoli, si prendono strade inaspettate. E da una famiglia, la questione di questi NOI si allarga, diventando universale e invadendo le strade e le menti degli spettatori.
Questi dopplegänger muti, persi in tunnel sotterranei, costretti a replicare negli spazi angusti quanto avviene sulla superficie, esperimenti falliti ma non fallaci, sognano nonostante tutto, e sognano in grande cercando di sovvertire le gerarchie, tentando di cambiare il loro destino. Sono loro a sembrare gli unici davvero lucidi, quelli che al contrario dei loro doppi in superficie, credono ancora in qualcosa, inseguendo ideali di giustizia contro l’asfissia della nazione, l’intorpidimento dei corpi e delle menti inconsapevoli, in questo caso, complici di un sistema senza rendersene conto.
La battaglia di un’America ombra, nascosta e schiacciata, che aspetta solo di conquistare la luce e ritrovare la voce.
A Ghost Story (D. Lowery, Usa 2017)
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C vive insieme a M in una vecchia casa. Sono una coppia con problemi ma felice, se non fosse che lei vuole abbandonare quel posto, mentre lui vuole restare perchè è legato ai ricordi. Quando C morirà, proprio lì di fronte, resterà ad abitarla e a difenderla, anche quando lei andrà via.
Di film di fantasmi ne esistono tanti, ma non ce ne sono molti come questo.
A Ghost Story parla di un fantasma sì, ma non fa paura, non quel genere di paura normalmente intesa. È un terrore più sottile, fatto di silenzi e attese, attese che possono durare un’eternità, senza che sia mai abbastanza. È un terrore dato da un presente non realizzato, da un futuro strappato, da un passato che poteva essere migliore. È costruito su un percorso irrisolto, è fatto di attimi, di avvenimenti che bruciano, di ciò che il personaggio ha amato e odiato, di quello che ha inseguito. È tutto il suo microcosmo e ha senso solo per lui. Per nessun altro. il tempo ci scorre intorno, sopra, sotto, prima, dopo, e questo non ha importanza per nessuno se non per lui.
Quando muore, questo personaggio senza nome, C, musicista sensibile interpretato da Casey Affleck, diventa un fantasma chiuso in una muta disperazione, è un’anima inerme, che è rimasta legata agli spazi che ha vissuto anche quando diventeranno vuoti. In attesa. Di cosa, forse lo dimenticherà, forse no. Sa solo che è inchiodato lì e vaga di stanza in stanza, intorno alla persona che ha amato e per cui non può fare nulla se non osservarla vivere. Persino quando la sua amata M, una Rooney Mara silenziosa e posata, andrà via abbandonando lui e i suoi, i loro luoghi.
No, non è il terrore brutalmente inteso questo, è ansia di esistere.
A Ghost Story parla di questo, di ansia di esistere in un tempo limitato. Parla dell'essere umano e di quello che lascia dopo la morte.
E il regista David Lowery lo fa con grazia, senza essere mai melenso, senza risultare forzato. Dosando i dialoghi, centellinando i momenti in una sceneggiatura ricca, piena di inventiva, che fa della comunicazione non verbale, dell’incontro di queste presenze indefinibili e all’apparenza mute, il suo perno. Lascia parlare i pochi luoghi che la presenza del fantasma rendono ancora più densi di senso, inquadrati con un formato inusuale, il 4:3, abbandonando il widescreen tipico del grande schermo per dare alla pellicola un'atmosfera ancora più intima, sbiadita, retrò. Con una colonna sonora meravigliosa (in particolare la canzone I Get Overwhelmed dei Dark Rooms) che dà le pennellate finali, rendendo ancora più tangibile questo tempo che passa, quei silenzi carichi intrappolati in una spirale temporale senza fine. Accompagnando il fantasma dal suo lenzuolo bianco sempre più sporco e stanco, attraverso una dimensione temporale che non ha riferimenti, che non ha un prima e un dopo, in uno spazio, che non lo si crederebbe mai, mutevole, proprio come lo è la vita.
A Ghost Story è un film intimista, solenne, etereo, attraversato da una tensione che riesce a essere dolce e crudele, spaventosa e amara. E si resta incantati, spaventati, sperduti, colpiti e sospesi quasi nel nulla durante la visione.
Si infila silenziosamente sottopelle. E i fantasmi finiamo con l’essere noi.
The Dirt: Mötley Crüe (J. Tremain, Usa 2019)
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Trama:
Dopo Bohemian Rhapsody e Rocketman ecco sbucare anche un nuovo biopic musicale, stavolta targato Netflix: The Dirt di Jeff Tremain che racconta la storia dei Mötley Crüe, la band di Los Angeles che fu uno dei gruppi di punta del genere Glam Metal negli anni '80.
Ma entriamo più nel dettaglio. The Dirt, al contrario dei già citati, è un film che ha più l’ambizione di essere divertente, ha i suoi momenti bui però calca molto più sull’aspetto ironico, mostrando una band, quasi una gang, di casinisti. Risulta inoltre davvero piacevole perché racconta una scena musicale di solito poco battuta che gli dà sicuramente un tono di novità.
Il film parte dalla difficile infanzia di Nikki Sixx, sin da subito ragazzino incasinato e difficile, prosegue col suo incontro con Tommy Lee, ragazzo dall’aria un po’ tonta che proviene da una famiglia borghese, con l’arrivo in scena del “vecchio” Mick Mars, alias Iwan Rheo/bastardo Ramsay di GOT, che soffre di una malattia degenerativa, e infine si completerà con l'entrata nel gruppo di Vince Neil, biondino donnaiolo molto glam.
La storia procede tra feste e concerti in un crescendo di successi e relativi annessi problemi. Solitudine, morte, alcol, droga, e soprattutto il ritorno dei fantasmi di Sixx, il più controverso del gruppo.
Si può dire che The Dirt è l’anti-Bohemian Rhapsody? Oserei rispondere di sì. Perché se il film sui Queen è stato definito edulcorato, qui gli eccessi estremi della band dei Mötley Crüe sono ben espressi e rappresentano il cuore della storia. Impossibile non citare l’entrata in scena dello “zio” Ozzy e del caos che ne deriverà…
Il catalogo elencato degli eccessi di Nikki & co è da una parte anche il punto di debolezza del film, troppi, troppo cercati (anche se pare tutti veritieri), tende a rendere i personaggi quasi delle caricature. Le possibili forzature sono però state scaricate di qualsiasi possibile critica in una maniera molto furba: il narratore più volte scherza sul carattere di finzione di ciò che si vede; in una scena Nikki Six guarda persino in macchina, ferma l'azione e racconta come sono "davvero andate le cose", e accade altre volte, mandando in frantumi quella gravità, quel volersi prendere sul serio a tutti i costi tipico dei biopic, mantenendosi anche coerente con l’ironia del film.
Inoltre, rispetto a Bohemian Rhapsody, principalmente concentrato su Freddie, The Dirt riesce a parlare di tutti i membri in egual misura, caratterizzandoli nei loro pregi ma soprattutto nei difetti anche se, nel tentativo di rendere più drammatici alcuni episodi e passaggi, qui cade. L’intento di dare alla storia quell’incedere di tensione e dramma in salita, come Bohemian Rhapsody, non è abbastanza riuscito, forse fa meglio nella sua caduta, piuttosto che nella sua rinascita, parte in cui purtroppo il film subisce un quasi brusco calo, per poi riguadagnare terreno sul finale.
E in tutto questo la musica? Non è presente come dovrebbe, passa quasi in secondo piano. Il film è troppo impegnato a preservare la sua carica ironica, a descrivere gli eccessi dei suoi personaggi e il momento creativo, l’ispirazione, sono lasciati da parte.
In conclusione lo consiglio? Sinceramente sì, resta una visione curiosa e scanzonata, di quelle che ti fanno passare un paio d’ore piacevoli.
Rocketman (D. Fletcher, UK 2019)
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Trama:
Sulla scia di Bohemian Rhapsody, uno dei casi cinematografici più clamorosi degli ultimi anni per il grande successo di pubblico, esce Rocketman, biopic sulla vita della rockstar britannica Elton John.
Rocketman si presenta sin da subito come un musical sopra le righe, colorato e pieno di inventiva, dalla prima magnifica scena iniziale, un piano sequenza da urlo che detta da subito le regole del gioco.
Con coraggio la sceneggiatura dà voce a un artista dalla vita e psicologia complessa, poco edulcorata, se non dai voli di fantasia di Elton, interpretato magnificamente da un intenso e convincente Taaron Egerton (già amato nello scoppiettante Kingsman).
Non ha paura di essere kitsch, né di rischiare con gli eccessi o il patetismo. È questo il grande potere del film: l’onestà, o almeno il tentativo di provare a esserlo. Il personaggio è presentato con le sue luci e le sue ombre, sostenuto dalla sua musica che la fa da padrone, àncora di salvezza e mezzo di espressione di un ragazzo, e poi uomo, sfaccettato e fuori dagli schemi.
Rocketman utilizza le canzoni in maniera intelligente per sottolineare l’evoluzione del personaggio, per tratteggiarne il conflitto interiore costante e le sue conseguenti fantasiose fughe dalla realtà cariche di colori.
Queste evasioni sono alcune delle scene più belle ed emozionanti che si possano vedere al cinema. Rappresentano i picchi assoluti del film, in grado di esaltarne e renderne vincente il suo fulcro narrativo, quel continuo dualismo tra uomo e artista, tra una vita privata piena di difficoltà e l'icona pop lontana dalla realtà, in perenne fuga. Picchi così alti e intensi che permettono a Rocketman, a mia opinione, di superare ampiamente il decantato Bohemian Rhapsody, anche se nel complesso il film dedicato a Freddie Mercury è sicuramente più compatto.
Rocketman soffre di alcuni momenti di calo che però le scene oniriche riescono a compensare. E anche forse di una regia molto basica, a favore di un pubblico generalista senza molte pretese.
In conclusione, il film è un flusso di coscienza fatto di immagini trascinanti, stacchi musicali e coreografie coinvolgenti, ben riuscito e sincero, uno spettacolo a cui è facile abbandonarsi.
Bohemian Rhapsody (B. Singer, Usa 2018)
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Trama:
Bohemian Rhapsody inaugura il nuovo periodo felice dei biopic musicali, raggiungendo degli inaspettati traguardi, 4 Oscar, in categorie principali o quasi, 2 Golden Globes e svariati altri premi.
Il film racconta la storia di Freddie Mercury, dalla sua infanzia, tratteggiata appena, alla nascita del gruppo dei Queen, fino al boom assoluto, alle prime battute d’arresto, attraversando infine la malattia, per sfociare nella rinascita e nel Live Aid.
Punto di forza assoluto del film è sicuramente l’attore Rami Malek, che nonostante non abbia proprio il physique du role (e una dentatura finta posticcia da far spavento), riesce a costruire una performance di grande efficacia, rendendo giustizia a quel frontman carismatico e geniale che era Mercury, compito per nulla facile.
Il film è costruito in maniera intelligente, dal primo lungo piano sequenza riesce a trascinare il pubblico in una spirale di emozioni crescente, sulle note ovviamente delle migliori canzoni dei Queen, pronte a scatenare il pubblico e a catapultarlo di scena in scena senza (quasi) momenti di noia.
Sicuramente la sceneggiatura è più attenta al mood, a restituire lo spirito di Freddie Mercury e il fenomeno, che a dettagliarne le ombre, a mostrare sfumature, forse non abbastanza rilevanti per un film di questo genere. Bohemian Rahpsody punta infatti tutte le sue carte sull’emozione, e lo fa esaltando l’impatto dei Queen e la loro ascesa, anche a discapito della verità: vengono manipolati, alterati ma soprattutto esaltati avvenimenti biografici che se resi più approfonditi o realistici sarebbero risultati poco appassionanti. Non per forza un difetto, un dato di fatto per rendere il risultato più appetibile e scintillante, sia per chi ne conosceva la storia, ma soprattutto per chi non la conosceva. E da quando è uscito, il film ha scatenato orde impreviste di fan "improvvisati", perciò vuol dire che è riuscito esattamente nel suo intento.
Nonostante comunque abbia dei picchi travolgenti alternati a qualche momento di calo, in particolare nella parte centrale in cui rallenta forse troppo, mostrando un Freddie stanco che si trascina in solitudine di scena in scena, è nel complesso abbastanza omogeneo, grazie a un ritmo sostenuto sempre costante.
In conclusione, il grande successo ottenuto non è di certo una sorpresa.
Bohemian Rhapsody riesce furbamente a non scontentare nessuno, raccontando la storia di Freddie e dei Queen in maniera controllata, ripulita dagli eccessi, giocando forse un po’ troppo con la verità storica adattata alle necessità dettate dalla sceneggiatura, o almeno alla costruzione di un prodotto di successo che ha lo scopo di porre l’accento sui buoni sentimenti e sulla storia di una rinascita, a uso e consumo di tutti.
Ma il cinema non è forse l’arte della finzione?
Parasite (B. Joon-ho, Corea del Sud, 2019)
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"Dobbiamo prendere il loro posto. I ricchi sono davvero dei fessi"
Trama:
Una famiglia di quattro persone non se la passa bene. Disoccupati, si arrangiano come possono vivendo in un seminterrato, senza molte prospettive per il futuro. Fino a quando un giorno il figlio Ki-woo viene raccomandato per un lavoro come insegnante privato di una famiglia ricca. E prende il via il piano…
Per Bong Joon-ho il tema della lotta di classe è sempre stato caro, già dall'amato Snowpiercer, fantastica distopia che metteva in scena un conflitto correndo lungo i binari di un treno, dai primi vagoni dei ricchi fino agli ultimi, la manodopera che moriva di fame.
In Parasite il conflitto parte dall’alto: la famiglia Park vive una ricchezza quasi fuori dagli schemi, pressocchè schiacciante, che non teme di perdere il suo posto, non ha paura di essere scalzata dal suo primo altissimo gradino. Ma incontrerà la famiglia del giovane Ki-woo, una delle tante realtà povere alla ricerca di rivalsa, di un’opportunità, costruita con le unghie e con i denti. E con la furbizia, tutto quello che può sopperire al denaro, anche brutalità, se necessario.
Loro sono resistenti, tenaci, per quanto ci si dimentichi della loro esistenza, non si può far finta che non esistano.
E infatti più vengono schiacciati, più finiscono col venire in superficie. Si arrangiano come possono, sono disoccupati ma di certo non gli manca la creatività, sono intelligenti e per nulla inferiori a questa fantomatica classe dominante, tanto da riuscire a penetrare lentamente, uno dopo l’altro, mescolandosi talmente bene da confondersi. Questo insinuarsi dei poveri nei pensieri dei ricchi, come un virus che li infetta senza che se ne rendano conto, è sottile e reso magnificamente dalle situazioni messe in scena, dai dialoghi minuziosi e pieni di senso costruiti tra i due schieramenti.
Ed è tutta qua la bravura di Bong Joon-ho, nella creazione di questo meccanismo narrativo e sociale, in cui si resta incastrati con molta facilità, in questo geniale piano che col suo ritmo incalzante trascina lo spettatore caricandolo di euforia, di eccitazione, è una corsa a perdifiato fino all’ultima scena. Ci si ritrova a saltare sul divano e a fare il tifo per questa stramba famiglia pronta a rovesciare gli equilibri stabiliti. A urlare: noi siamo qui e non siamo inferiori a nessuno!
I due mondi, speculari, opposti, si incontrano e scontrano. Il groviglio sporco del seminterrato della famiglia del giovane Ki-woo e la casa perfetta dalle infinite vetrate del signor Park, una gabbia di vetro splendente capolavoro di architettura, scenografie precise e piene di significato che dettano i confini tra cui si muovono questi personaggi caratterizzati, plasmati dal loro ruolo fino quasi alla caricatura, cercata, voluta dal regista.
La sceneggiatura è piena di idee e colpi di scena che si susseguono senza un attimo di respiro, riuscendo con abilità sorprendente a mescolare generi, a passare dalla commedia al dramma, dal satirico fino al grottesco, senza sbagliare un solo singolo minuto, mantenendosi coerente e coeso. Il colpo di scena che arriva verso la metà del film è impressionante, riesce a ribaltare tutto quello che avevi costruito fino a quel momento, lasciando spiazzati per la sua imprevedibilità. Difficile rimanere così tanto sorpresi.
Il tutto condito da una regia davvero eccezionale fatta di strabilianti campi lunghi, di primi e secondi piani; di immagini costruite a livelli e nell’interazione tra le parti pronte a rincorrersi, a invertire i ruoli, di giochi di luci, di ombre che inghiottiscono la sicurezza della quotidianità, destabilizzando personaggi e spettatore in un crescendo mozzafiato.
Parasite è un film denso, densissimo, come se ne vedono pochi, e che non ha davvero confini.
Dello stesso regista:
Manchester by the Sea (K. Lonergan, Usa 2016)
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Trama:
La morte del fratello maggiore riporterà Lee Chandler a casa, per prendersi cura del nipote di 16 anni. Nei luoghi di un tempo cancellato, sarà costretto a fare i conti con un passato straziante.
La prima cosa che colpisce di questo Manchester by the Sea è lo sguardo del protagonista, apatico, distante anni luce. Sai sin da subito, da come guarda il mondo, da come si trascina attraverso il mondo, quasi in punta di piedi, che ha passato di tutto e che si sta nascondendo, anche e soprattutto da se stesso. È impossibile ignorare la recitazione di Casey Affleck, asciutta ai limiti del minimalismo e mai forzata, la sua impressionante presenza scenica, con quel corpo teso e allo stesso tempo abbandonato, con quegli occhi di una profondità che atterrisce. Tutto il film è nascosto lì. E non c'è davvero una scena in cui lui non comunichi un sentimento, anche senza aprire bocca.
Lee è un personaggio "broken", vive a Boston e il suo lavoro è il portiere tuttofare di un complesso di palazzi, all'improvviso costretto a tornare a casa per far fronte a una emergenza che non vorrebbe mai affrontare. La psicologia ingombrante di quest'uomo emerge sin da subito ed è il cuore della storia, costruita magnificamente alternando presente e passato in una maniera fluida ed emozionante. È tutto un crescendo di scene perfettamente incastonate tra loro che traghetta fino alla conclusione senza mai calare di intensità. Parte quasi dormiente, poi si accende lentamente e prende fuoco. La psicologia dei personaggi è sostenuta da una colonna sonora giusta e mai invadente che riesce a sottolineare in modo egregio ogni istante, mentre i fotogrammi si susseguono lasciando delle pesanti tracce nello spettatore.
Anche la fotografia segue il ritmo della colonna sonora, con i suoi colori molto scuri si intona agli stati d'animi bui dei protagonisti, prima di tutto Lee, ma anche di suo nipote Patrick. Le scene in cui sono insieme sono forse le più emotivamente cariche del film, sembrano sempre lì lì per esplodere. Il loro rapporto evolverà attraverso il lutto e si plasmerà nella sua elaborazione, trovando la strada per un equilibrio che all'improvviso appare impossibile. Anche il lutto è trattato con una modalità diversa, senza fronzoli, a tratti quasi crudele e grottesca, ma realistica, veritiera. Comunica un'emozione autentica.
È questo quello che lascia Manchester by the Sea a fine visione: un'emozione autentica.
Upgrade (L. Whannell, Usa 2018)
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Trama:
Gray Trace è un meccanico old style, gli piace mettere le mani nelle macchine e ripararle, ma è rimasto senza lavoro quando le intelligenze artificiali hanno preso il suo posto. Sua moglie Asha è invece una donna in carriera che l'intelligenza artificiale l'apprezza e la sfrutta senza porsi alcun problema. Un giorno Gray la convince ad accompagnarlo a riconsegnare una macchina al ricchissimo inventore Eron, ma sulla via del ritorno avranno un incidente che lascerà Gray paralizzato e vedovo. Ma Eron è lì per lui e gli offre di impiantargli un chip sperimentale, STEM, che lo rimetterebbe in piedi, permettendogli di compiere la sua vendetta, ma a che prezzo...
Questo Upgrade è un gradevole film sci-fi tendente al B-movie, abbastanza classico nella storia e nel suo sviluppo, ma girato in maniera moderna e accattivante, con un budget basso e in questo caso per nulla limitante, anzi. Un po' Blade Runner, un po' Robocop, colpisce sicuramente per le atmosfere decadenti valorizzate da un'ottima fotografia, per le location curatissime (la casa di Eron, il pub, il palazzo di Jamie e alcuni interessanti scorci sulla città, ad esempio), per nulla banali, e per la parte action in cui il film spicca. Gli inseguimenti per le strade, sicuramente, ma in particolare i combattimenti corpo a corpo che sono convincenti e accattivanti. Il regista si diverte ad utilizzare molti espedienti ingegnosi, con qualche bellissima steadycam posteriore, e dei movimenti di macchina inaspettati quanto intriganti.
L'attore Logan Marshall-Green se la cava bene, con la sua - impossibile da non notare - somiglianza con Tom Hardy, chissà se voluta nel casting, e il suo STEM, voce "fuori campo" sempre più ingombrante. Questa combo di personaggi, non ha potuto farmi evitare di pensare a VENOM, soprattutto nelle interazioni fatte di botte e risposte, iniziali difficoltà comunicative, con battute semi comiche, e poi una crescente consapevolezza.
Condisce il tutto, rendendolo più appetibile e distaccandolo da alcuni predecessori, le riflessioni che riguardano le tecnologie e il loro ruolo nell'evoluzione dell'essere umano.
In conclusione, film piacevole che consiglio per una serata sci-fi non esageratamente impegnativa ma non priva di spessore.
BOMB MAN - Ilaria Pasqua
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Trama
In un futuro non molto lontano, sul pianeta Terra imperversa l’ossessione delle bombe, un vero e proprio flagello per l’umanità.
Julius, proprietario dell’azienda Fabric, ha fatto la sua fortuna cavalcando l’onda del terrorismo mentre il figlio Carl desidera un mondo nuovo. E sarà proprio lui a trovare una soluzione al problema: una seconda pelle artificiale che protegge le persone e le città dalle deflagrazioni. Una scoperta che sconvolgerà per sempre il modo di vivere delle future generazioni, come quella a cui appartiene lo “spilungone”, un impiegato di Fabric che assiste muto alle continue esplosioni, ormai diventate un’insostituibile e morbosa fonte di divertimento, in una realtà in cui il terrorismo non è altro, ormai, che un arido riverbero senza significato. Fino a quando non scoprirà che la seconda pelle è imperfetta e che il passato, con tutto il suo bagaglio di luci e ombre, è sempre in agguato.
Pubblicato da: Scatole Parlanti (Gruppo Alter Ego Edizioni)
Per tutte le informazioni: http://www.scatoleparlanti.it/mondi/bomb-man/
Segnalazioni: Scritture del primo mondo
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AUTORE: Aliasor
EDITORE: Santelli Editore
ANNO DI PUBBLICAZIONE: Ottobre 2018
GENERE: narrativa fantastica
PAGINE: 164
PREZZO: € 14,90 (cartaceo) ; € 6,99 (eBook)
Cosa succederebbe se avessimo sempre avuto torto e le divinità non fossero come abbiamo sempre creduto? Tempo non è il sempre rappresentato vecchietto ma ama gli anime, i videogiochi e mangia tutto il giorno cibo spazzatura; Vita non è buona ma è odiata dai suoi colleghi perché ipocrita e arrogante; Morte non è affatto crudele come si pensava. Sono solo alcune delle divinità che vivono il Multiverso, con infiniti mondi e possibilità ma un solo mistero: tre divinità sono morte. Una strana creatura viaggia libera perseguendo uno scopo ancora ignoto, compagnie e unioni segrete complottano nell’ombra senza sapere contro chi lottano veramente, pronti a fare patti col diavolo. L’ordine cronologico, le credenze religiose e quelle mitologiche sono sovvertite distruggendo tabù che i mortali temono e venerano. Non tutti coloro che hanno il dono, o forse maledizione, di conoscere l’esistenza di queste divinità sono loro favorevoli. Nessuno si preoccupa davvero di tutto ciò, ad eccezione di un uomo: l’Uomo Nero, che è tornato. Anche se purtroppo non sempre si può avere, come nelle fiabe, un «E vissero sempre felici e contenti».
Segnalazioni: Ti lascio una mia foto
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TITOLO: Ti lascio una mia foto
AUTORE: Retali Manuela
EDITORE: Lettere Animate
ANNO DI PUBBLICAZIONE: 2018
GENERE: narrativa rosa
PAGINE: 190
PREZZO: carteceo 12 € - Ebook 3,49
DOVE TROVARLO:
https://www.amazon.it/Ti-lascio-una-mia-foto-ebook/dp/B07DYJXZC7
https://www.mondadoristore.it/Ti-lascio-una-mia-foto-Manuela-Retali/eai978887112422/
https://www.lafeltrinelli.it/libri/manuela-retali/ti-lascio-una-mia-foto/9788871124223
https://www.ibs.it/ti-lascio-mia-foto-ebook-manuela-retali/e/9788871124421.
TRAMA:
Daisy Clarke si trasferisce a New York dove vive anche suo fratello, per tenersi lontana da una città che ormai le ricorda solo vecchie ferite. Si arrangia lavorando come commessa, dividendo un piccolo appartamento con un amico, e cercando di coltivare la grande passione per la fotografia, con il sogno segreto di poter aprire un giorno uno studio tutto suo. Nel frattempo si dedica ad una relazione senza impegno con un ragazzo superficiale, credendo, ormai disillusa dall’idea dell’amore, che questa sia l’unica strada per lei. Un viaggio in Italia totalmente improvvisato, la condurrà sul sentiero di un destino imprevisto, portandola ad un incontro con una persona speciale, che la farà riflettere sulla ricerca delle proprie emozioni e delle proprie paure.
BIOGRAFIA:
Manuela Retali nasce a Roma e vive sul lago di Bracciano. Scrivere romanzi e poesie è una sua grande passione sin da bambina, come quella per il pianoforte, la danza classica, il cinema, la fotografia e il canto, che studia da due anni. Possiede un blog dove sono raccolte tutte le sue poesie e i suoi pensieri, e nel 2017 è uscito il suo primo romanzo “la seconda vita”.
Segnalazioni: L'ultimo Paleologo
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Titolo: L'ultimo Paleologo
Autore: Emanuele Rizzardi
Editore: Cavinato Editore International
Anno di pubblicazione: 2017
Genere: romanzo storico
Pagine: 423
Prezzo: 25 euro
Dove trovarlo:
Ibs: https://www.ibs.it/ultimo-paleologo-ebook-emanuele-rizzardi/e/9788869825217" target="_blank">https://www.ibs.it/ultimo-paleologo-ebook-emanuele-rizzardi/e/9788869825217
Trama:
1453, Ancona. Quattro galee italiche prendono il mare per soccorrere Costantinopoli, assediata dal geniale e terribile sultano Maometto II. Chi le comanda è Alessio, bastardo della casata dei Paleologi, di ritorno a casa dopo un lungo esilio a causa di un turpe delitto.
Dopo aver umiliato le navi dell’ammiraglio turco Baltoglu, Alessio sperimenta la durezza dell’assedio e gli attriti fra occidentali e bizantini in una città agonizzante e prossima alla capitolazione.
Nella disperata ricerca di alleati, il basileus Costantino XI lo invierà nel Caucaso, presso il regno di Georgia, per portare a compimento una promessa matrimoniale rimandata troppo a lungo. Inseguito da vecchi nemici in cerca di vendetta, giungerà alla corte del duca di Kutaisi dove prenderà parte alla lunga e intricata guerra civile per conquistare il trono di "Re dei Re", signore di tutta la Georgia.
Biografia:
Sono nato a Legnano (MI) il 22-02-1990, dove attualmente risiedo.
Mi sono laureato in lingue presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e lavoro come professionista del marketing nel settore informatico.
Sono appassionato di storia fin da bambino, coltivo un interesse autodidatta particolare per il medioevo bizantino e per il Caucaso, mi sono formato sui saggi dei più noti storici contemporanei e non.
"L'Ultimo Paleologo" è il mio primo romanzo.
Contatti: https://it-it.facebook.com/UltimoPaleologo/" target="_blank">https://it-it.facebook.com/UltimoPaleologo/
Segnalazioni: Mille Primavere
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Titolo: Mille Primavere
Autore: Manuela P. Kane
Editore: Lettere Animate
Anno di pubblicazione: 2018
Genere: Rosa
Pagine: 327
Prezzo: 17.50 cartaceo
2.99 kindle
Dove trovarlo:
Amazon: https://www.amazon.it/dp/B0795BRP17/ref=cm_sw_r_cp_apa_7emXAbXYN71J3" target="_blank">https://www.amazon.it/dp/B0795BRP17/ref=cm_sw_r_cp_apa_7emXAbXYN71J3
Mondadori: http://www.mondadoristore.it/Mille-primavere-Manuela-P-Kane/eai978887112265/
La Feltrinelli: https://www.lafeltrinelli.it/smartphone/libri/manuela-p-kane/mille-primavere/9788871122656" target="_blank">https://www.lafeltrinelli.it/smartphone/libri/manuela-p-kane/mille-primavere/9788871122656
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